Sterilizzare l'IVA: vale davvero la pena?

Come è noto, il perno della manovra finanziaria per il 2020 decisa dal governo - ma, su questo punto, condivisa proprio da tutti, sia maggioranza che opposizione - è la cosiddetta “sterilizzazione” delle clausole IVA (ben 23 miliardi sui complessivi 30 costituenti l’intera manovra).

Non è inutile ricordare che le clausole in questione non sono altro che rincari automatici delle entrate negoziati con l’Europa a fronte di spese pubbliche già decise ed effettuale in passato. In sostanza quindi, se le diverse misure previste non faranno entrare nelle casse dello Stato quei famosi 23 miliardi e/o questi non siano comunque reperiti ricorrendo a nuovo deficit consentito dall’Europa, allora l’aliquota IVA ordinaria salirà il prossimo 1 gennaio 2020 dal 22% al 25,2% e quella ridotta dal 10% al 13%.

Una sciagura? Certamente un colpo non da poco per i consumi di un Paese che non cresce più di qualche risicato decimale all’anno e che, quasi unico in Europa, non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi. I conti precisi li ha fatti però il quotidiano economico Il Sole 24 Ore. Se davvero il prossimo primo gennaio dovessero aumentare le aliquote IVA, su ogni famiglia graverebbe una nuova tassa in media di circa 538 euro. Per effetto del diverso paniere delle famiglie, il peso sarebbe più rilevante per i cittadini del Nord che per quelli del Sud, più significativo per chi vive nelle grandi aree metropolitane rispetto agli abitanti dei piccoli centri, più importante per le famiglie più numerose. Tuttavia secondo l’ISTAT, il presunto aumento dell’IVA avrebbe un effetto depressivo sui consumi solo dello 0,2%. Una stima confermata anche da Bankitalia che aggiunge che l’effetto depressivo sui consumi sia più che altro su base ciclica e non strettamente correlato all’aumento dell’IVA.

Un effetto quindi sicuramente significativo ma a ben vedere non tale da escludere, a priori, una valutazione su quel che si sarebbe potuto fare, in alternativa, con quei 23 miliardi a disposizione. Per dire, se il taglio del cosiddetto “cuneo fiscale” per 4,5 miliardi deciso per il 2020 porterà nelle tasche dei lavoratori dipendenti, che abbiano un reddito da 8 a 35 mila euro annui, circa 40 euro netti al mese in più a testa, allora è più che legittimo chiedersi cosa si sarebbe potuto fare se a disposizione ci fosse stata una somma di oltre cinque volte superiore.

Va poi considerato che l’IVA è un imposta per così dire interclassista, nel senso che il suo non aumento va a vantaggio di tutti, anche di coloro che ben potrebbero pagare qualche punto in percentuale in più sui loro acquisti, mentre un intervento sui redditi più bassi agevolerebbe solo chi ne ha effettivamente bisogno e sente maggiormente il peso della crisi.

Resta da ultimo il fatto che si può pure decidere di risparmiare, attenuando così l’effetto dell’aumento dell’imposta sui consumi, ma beneficiando comunque integralmente dell’eventuale maggiore sgravio delle imposte sui redditi.

Proprio conti alla mano allora è quindi difficile non credere che, utilizzando diversamente la stessa disponibilità, l’aggravio dell’IVA avrebbe potuto essere compensato, per i redditi più bassi, da un ben più rilevante sgravio di imposte sui redditi.

E allora perché nessuno si azzarda neppure a discuterne? Temo che la risposta sia semplice e per niente tecnica. Perché nessuno avrebbe oggi il coraggio di intestarsi politicamente un sicuro ed indiscutibile aumento delle tasse (l’IVA appunto). Neppure se, a fronte di questo, se ne potrebbero diminuire altre in misura addirittura più significativa e con criteri di migliore equità distributiva.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

05/11/2019 Il Messaggero Veneto