La giusta protesta dei ristoratori

La pur prevedibile (ma, evidentemente, a questo punto non adeguatamente prevista) risalita dei contagi da Covid-19 ha indotto il governo ad emanare l’ennesimo Dpcm che dispone, tra l’altro, la chiusura dei ristoranti e dei bar a partire dalle ore 18. Dopo mille anticipazioni e rumors, è uscito infatti il decreto che, a partire dal 26 ottobre e fino al 24 novembre, dispone la chiusura di tutti gli esercizi di somministrazione di pasti e bevande, impedendo di fatto la loro apertura al pubblico per la cena della sera.

Per di più lo stesso Dpcm raccomanda, in generale, di spostarsi da casa solo per impellenti necessità di lavoro o di studio. Dal che si può concludere che, di fatto, il governo sta raccomandando agli italiani di non frequentare ristoranti e bar neppure negli orari di consentita apertura. Non dimenticando, al riguardo, che la diffusione dello smart working aveva già di fatto di molto limitato la frequentazione dei ristoranti nell’ora di pranzo.

Pur non condividendo i casi di protesta incivile, va tuttavia detto con chiarezza che non possono non considerarsi pienamente giustificate le reazioni negative di tutti i ristoratori di fronte a questi provvedimenti. Dopo aver loro richiesto di introdurre tutte le misure di precauzione sinora previste dalle normative per rendere sicura la frequentazione dei locali (a partire dal distanziamento dei posti a sedere, con conseguente perdita di clientela), si rischia in tal modo di infliggere un colpo mortale ad un settore da sempre ritenuto un’eccellenza per il nostro Paese.

La considerazione non è mitigata dai provvedimenti di indennizzo che il governo starebbe per mettere in campo come ristoro a favore dei soggetti colpiti. Per due motivi. In primo luogo, perché qualunque sia l’entità e le modalità di questi interventi compensativi, questi arriveranno comunque dopo (e non contestualmente) rispetto all’imposta chiusura dell’attività, con conseguente diffusione di un clima di incertezza e di precarietà che, in tempi come questi, si sarebbe dovuto assolutamente evitare. In secondo luogo, perché sarà comunque difficile riuscire a risarcire efficacemente tutta la complessa filiera produttiva che sostiene la nostra ristorazione, soprattutto quella di qualità. Per salvare il settore non basta, in altre parole, risarcire il ristoratore se non si saprà fare altrettanto con tutta la ramificata filiera dei fornitori delle materie prime che proprio con la qualità dei loro prodotti ne hanno consentito l’affermazione con il pubblico.

Nessuno può fondatamente dire se la misura si rivelerà effettivamente utile a contenere il contagio e a contribuire ad arrestare la progressione dell’infezione. Lo speriamo ovviamente tutti. Né se l’intervento, da questo punto di vista, avrebbe potuto essere destinato a settori ancor più problematici (i trasporti, per esempio). Ma ciò che si può senz’altro dire è che questo provvedimento, dal punto di vista economico, colpisce il mondo della ristorazione in maniera ingiusta e discriminatoria.

In un contesto in cui il Paese resta comunque aperto (non siamo in lockdown), se mi imponi di chiudere mi devi al contempo risarcire del danno che mi arrechi in ragione del contributo che mi chiedi di dare a favore della collettività e della sua salute pubblica. Subito. E non dopo. E, se vogliamo, forse. In un Paese che ambisca a definirsi civile, questa non può non essere un’aspettativa più che legittima.

Claudio Siciliotti
@csiciliotti
@claudio.siciliotti

28/10/2020 Il Messaggero Veneto