Buon senso in reverse charge?

La domanda sorge traendo spunto dalla recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 7576 del 15/4/2015), con la quale i Giudici Supremi hanno stabilito che non si applica la sanzione per omesso reverse charge (in caso di omessa integrazione di fatture intracomunitarie) in quanto la violazione ha natura esclusivamente formale.

Al di là del linguaggio tecnico, è opportuno per prima cosa spiegare in parole semplici e comprensibili anche da non “addetti ai lavori” l’oggetto della controversia.

Orbene, gli acquisti effettuati da imprese italiane presso soggetti esteri UE vengono assoggettati al particolare meccanismo definito di “reverse charge”; ossia, il fornitore estero non addebita l’IVA in fattura, che viene invece regolarizzata dall’acquirente italiano, mediante “integrazione” della fattura, aumentando cioè l’importo del documento stesso dell’IVA secondo l’aliquota prevista (e quindi del 22% nella maggioranza dei casi).

La particolarità del meccanismo consiste tuttavia nel fatto che questa fattura “integrata” viene registrata dall’acquirente italiano sia nel registro delle fatture emesse che nel registro delle fatture di acquisto.

La relativa IVA, per l’appunto “integrata” dall’acquirente italiano, entra dunque a far parte della liquidazione IVA stessa, sia come posta a “credito” che come posta a “debito”, risultando pertanto del tutto neutrale ai fini del tributo (IVA) da versare all’Erario, salvo particolari limiti di detraibilità.

C’è da chiedersi pertanto perché la Corte di Cassazione sia arrivata ad occuparsi di una questione che rimane assolutamente “neutrale” ai fini della determinazione dell’IVA da versare.

La risposta è presto fornita: perché in caso di mancata “integrazione” della fattura, il malcapitato contribuente si vedeva contestata la detraibilità dell’imposta registrata tra gli acquisti (normalmente il 22% dell’importo dell’acquisto effettuato) e si vedeva pure irrogata una sanzione pari al 100%(!) dell’imposta IVA stessa.

Ci sarebbe quindi da rallegrarsi che la Corte di Cassazione abbia finalmente posto un rimedio ad un evidente ingiustizia sostanziale perpetrata ai danni dei contribuenti italiani.

Il rincrescimento deriva purtroppo dal fatto che la predetta Sentenza della Corte di Cassazione sia stata assunta solo dopo la Sentenza del 11/12/2014 (C-590/13) della Corte di Giustizia europea, la quale ha dunque “obbligato” gli organi italiani ad allinearsi a tale intendimento.

In secondo ordine c’è da chiedersi perché mai si sia dovuti arrivare fino all’ultimo grado di giurisdizione, ossia alla Corte di Cassazione, posto che il malcapitato contribuente fosse risultato “vittorioso” già in primo ed in secondo grado.

E, dunque, essendo arrivati fino all’ultimo grado di giudizio previsto dal nostro ordinamento, su chi graveranno le spese di tutta la procedura contenziosa? Confidando che la risposta non sia “sul malcapitato contribuente”, non si può che giungere alla conclusione di apporre il plurale ossia “sui malcapitati conribuenti”! Ossia su tutti i cittadini che pagano le imposte!

C’è poi un’ultima domanda su cui interrogarsi: quanti altri casi analoghi risulteranno tuttora pendenti? E d’ora in avanti durante le verifiche si terrà conto della Sentenza della Corte di Cassazione, non obbligando il “malcapitato contribuente” a far valere le proprie ragioni in sede contenziosa?

Alessandro Zanon
LinkedIn

 

Argomenti correlati
Split payment, facciamo chiarezza
News del 02/03/2015
Giacomo Siciliotti

Split payment: come risolvere i problemi dello Stato addossandoli alle imprese
Rassegna stampa del 13/02/2015
Claudio Siciliotti